“Col passare del tempo mi sono reso conto che il sostegno ai postulati [psicanalitici] derivava in definitiva dalle affermazioni delle autorità psicoanalitiche piuttosto che dalle prove”. Così Beck scriveva a Paul Meehl nel 1968, lamentandosi del rifiuto – da parte degli analisti che lo avevano formato – di prendere in considerazione le sue ipotesi sulle cause della depressione. Ipotesi che, da lì a pochi anni, lo avrebbero portato a creare la terapia cognitiva e a pubblicare ricerche empiriche in grado di sostenere l’efficacia del suo approccio (e, indirettamente, disconfermare l’ipotesi freudiana del nesso tra aggressività e depressione).

A partire da Lutto e melanconia, pur nella loro varietà, praticamente tutte le teorie psicoanalitiche sulla depressione (da Melanie Klein a, solo per citarne alcuni, John Bowlby e, più recentemente, Sidney Blatt) hanno ruotato attorno a una ipotesi centrale: la depressione è il risultato di esperienze di perdita (reali o percepite) nelle relazioni. Per la psicoanalisi (ma anche per la psicologia dinamica in generale) queste esperienze di perdita portano inevitabilmente con se sentimenti di rabbia verso l’altro; rabbia a cui – di nuovo, inevitabilmente – si associata un profondo e intollerabile senso di colpa verso ciò che si è perso. E’ a questo punto che la persona, nel tentativo inconscio di proteggersi da questo senso di colpa, rivolgerebbe la rabbia verso se stesso. Da questa soluzione conflittuale vedono la loro genesi i sintomi depressivi: irritabilità cronica, auto-rimproveri e aggressività verso se stessi. Beck non la pensava così. Era convinto che fossero gli auto-rimproveri e i pensieri negativi (delle “distorsioni cognitive”) a rappresentare la psicopatologia vera e propria, piuttosto che la sua conseguenza. Invece di centrare il trattamento sui conflitti sottostanti il vissuto depressivo (modificando così le distorsioni di pensiero), per Beck l’approccio migliore consisteva nel lavorare direttamente sulle distorsioni.

Andiamo ora avanti di qualche anno. Siamo nella prima metà degli anni settanta, sempre in America. E’ in questo periodo che ricercatori in psicoterapia e politici americani danno inizio a uno sforzo a tutto campo per capire come rendere la psicoterapia, una delle esperienze umane più private e soggettive, indagabile attraverso uno dei metodi scientifici più oggettivi e quantitativi: lo studio randomizzato controllato (RCT) (Bergin & Strupp, 1972). Sforzi che si rivelarono inutili, dato che il dibattito rimaneva cronicamente fermo su due fronti contrapposti: da un lato vi erano i ricercatori psicoanalitici che li rifiutavano, considerandoli un vero e proprio assalto alla soggettività; dall’altro lato della barricata, vi erano i terapeuti comportamentali che li sostenevano con fervore proprio per lo stesso motivo (Rosner, 2005). Stava però arrivando un forte vento di cambiamento sociale a far saltare questo equilibrio.

La crescente influenza della Food and Drug Administration (FDA), seguita dal rovinoso impatto della guerra del Vietnam sulle casse del governo, costrinse questi dibattiti a passare in secondo piano rispetto al problema dell’allineamento della psicoterapia con i nuovi standard nazionali per la ricerca medica e farmacologica. Il Congresso degli Stati Uniti e gli stessi amministratori del National Institute of Health chiedevano ora “responsabilità” (Bothwell et al., 2016). Responsabilità che divenne ancora più urgente quando il presidente Carter iniziò a spingere per l’assicurazione sanitaria nazionale nel 1976. Un ampio spettro di specialità mediche, tra cui la psicoterapia, finirono con il doversi adattare ai metodi degli RCT per poter rientrare nel programma di copertura sanitaria.

E’ in questo contesto che Aron Beck ideò – siamo nel 1979 – il suo trattamento “manualizzato” per la depressione (Rosner, 2018). Il suo approccio enfatizzava brevi tranche di trattamento incentrate sul cambiamento delle credenze e dei comportamenti associati alla depressione. Manualizzando il suo approccio alla terapia della depressione, Beck fece in modo che ogni paziente potesse ricevere lo stesso trattamento all’interno di condizioni randomizzate (negli stessi giorni, in un numero di sedute prefissato ecc.). Insomma, l’esatto contrario delle condizioni che definivano una psicoanalisi standard. Fu l’inizio della fortuna delle terapie cognitive per il trattamento della depressione; fortuna che le ha rese, a oggi, il “gold standard” per il trattamento della depressione. Aveva ragione allora Beck a pensare che la depressione fosse il risultato di credenze negative invece che l’esito di un conflitto inconscio? Sembrerebbe di no.

Alla fine di settembre il Journal of Consulting Psychology ha pubblicato un interessante articolo dal titolo: “The Anger-Depression Mechanism in Dynamic Therapy: Experiencing Previously Avoided Anger Positively Predict Reduction in Depression via Working Alliance e Insight” (Town et al., 2021). Si tratta di una ricerca che fa parte di uno studio più ampio, il The Halifax Depression Study (Town et al., 2017) – da notare che si tratta di uno studio che rispetta gli standard degli RCT – volto a indagare l’efficacia della terapia psicodinamica breve, l’Intensive Short Term Dynamic Therapy (ISTDP). L’ISTDP è una terapia a tempo limitato che si concentra sul mobilizzare e fare esperienza di stati emotivi complessi, inclusa la rabbia non riconosciuta verso le figure di attaccamento (Abbas, 2015). L’ipotesi su cui si basa questo trattamento è che il riconoscere e fare esperienza di queste emozioni diminuisca la necessità del paziente di fare affidamento all’evitamento difensivo di quelle emozioni che sostengono la presenza dei sintomi depressivi.

In questo nuovo lavoro Town e collaboratori presentano i risultati di un’indagine condotta su 540 sedute di 27 pazienti con diagnosi di depressione “resistente al trattamento”. Si tratta di uno studio complesso, con ipotesi e obiettivi multipli. Tra questi, uno degli obiettivi era verificare l’ipotesi freudiana secondo cui favorire il riemergere e la comprensione della propria rabbia rimossa favorirebbe una riduzione della depressione nella seduta successiva. La buona notizia è che i risultati generali sembrano confermare la correttezza dell’ipotesi psicoanalitica: la possibilità di fare esperienza della propria aggressività e l’insight delle proprie dinamiche aggressive è risultato associato a una diminuzione dei sintomi depressivi nella seduta successiva. Guardando più attentamente i dati, emerge un quadro più complesso dei processi terapeutici associati a questo esito che vale la pena approfondire. Differenziando i pazienti a seconda del livello di funzionamento della personalità – valutato attraverso la maturità dei meccanismi di difesa prevalenti, il livello di alessitimia (cioè della loro capacità di riconoscere e verbalizzare le emozioni) e di capacità interpersonali – Town e collaboratori hanno riscontato che per i pazienti meno gravi la possibilità di fare esperienza in seduta della propria aggressività verso un’altra persona favorisce un miglioramento della depressione nella seduta successiva solo se questa esperienza è accompagnata da un maggiore insight. Viceversa, con i pazienti più gravi l’esperienza della propria aggressività in seduta favorisce un miglioramento della depressione nella seduta successiva solo se si trova associata a un incremento dell’alleanza terapeutica. Per pazienti più gravi, insomma, l’ipotesi psicoanalitica sarebbe utile solo in presenza di una maggiore alleanza terapeutica, cioè solo se il paziente sente che il legame con il terapeuta ne esce rafforzato.

Generalizzando questo dato, potremmo dire che questo studio sostiene anche la correttezza dell’idea che, se per i pazienti meno gravi la capacità di comprendersi meglio è un fattore terapeutico cruciale, per i pazienti più gravi sembra che il fattore terapeutico chiave sia la relazione con il clinico. Potremmo cioè dire che sembra sostanzialmente corretta l’idea, abbastanza consolidata nella letteratura psicoanalitica (Gabbard, 2017; Kernberg, 1972), che le terapie espressive siano più utili a pazienti più sani, mente i pazienti più compromessi beneficerebbero maggiormente di terapie più supportive. Insomma, si tratta di risultati che, oltre a sostenere l’ipotesi psicoanalitica sul rapporto tra rabbia e depressione, rispondono anche alla domanda che, fuori dal circolo degli studi randomizzati controllati, continuano a porsi i clinici di ogni orientamento: what works for whom?

 

Bibliografia

Abbass, A. (2015). Superando la resistenza. Tecniche psicoterapeutiche avanzate. Tr. it. CLEUP,  Padova 2018.

Bergin, A. E., & Strupp, H. H. (1972). Changing frontiers in the Science of psychotherapy. Chicago, Aldine Atherton.

Bothwell, L. A., Greene, J. A., Podolsky, S. H., & Jones, S. D. (2016). “Assessing the gold standard  – Lessons from the history of RCTs”. New England Journal of Medicine, 374, 2175–2181.

Gabbard, G.O. (2017). Introduzione alla psicoterapia psicodinamica. Tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2018.

Kernberg, O. F., et al. (1972). “Psychotherapy and psychoanalysis: Final report of the Menninger Foundation’s psychotherapy research project”. Bulletin of the Menninger Clinic, 36(1-2), 275.

Rosner, R.I. (2005). “Psychotherapy research and the National Institute of Mental Health, 1948–1980”. In Pickren, W. E. & Schneider, S. F. (Eds.), Psychology and the National Institute of Mental Health (pp. 113–150). Washington, DC: American Psychological Association.

Rosner, R.I. (2018). “Manualizing psychotherapy: Aaron T. Beck and the origins of Cognitive Therapy of Depression”. European Journal of Psychotherapy & Counselling, 20(1), 25-47.

Town, J. M., Falkenström, F., Abbass, A., & Stride, C. (2021, September 30). “The Anger-Depression Mechanism in Dynamic Therapy: Experiencing Previously Avoided Anger Positively Predicts Reduction in Depression via Working Alliance and Insight”. Journal of Counseling Psychology. Advance online publication. http://dx.doi.org/10.1037/cou0000581

Dott. Francesco De Bei
Psicologo clinico e Dottore di ricerca in psicologia dinamica e clinica
Docente Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Psicodinamica