Adolescenti orfane dell’identità femminile
La giornata di studi interdisciplinari sul tema del “Femminismo e femminismi. Culture, luoghi, problematiche” rappresenta la miglior cornice in cui proporre e condividere alcune riflessioni sulle diverse declinazioni che può assumere l’identità femminile nell’attuale scenario culturale.
Mi occupo di adolescenza da molti anni e tutte le problematiche intorno all’identità femminile sono sempre state, per le giovani donne, dei compiti evolutivi di notevole difficoltà. Tuttavia, mai come in questo periodo ho registrato una tale difficoltà nella definizione dei ruoli.
Fa parte del processo adolescenziale creare un’identità propria, contestando e rivoluzionando tutto quello che fino alla pubertà aveva caratterizzato il proprio essere nel mondo. Molti genitori riferiscono di non saper più chi sia il proprio figlio, si chiedono dove siano tutti i loro insegnamenti: il cambiamento è così repentino e talvolta violento da far sì che il genitore stenti a riconoscere in quella persona il proprio figlio.
Ciò rientra nella normalità, costituisce un difficile passaggio evolutivo che, alla fine, restituisce una persona vera con delle proprie caratteristiche. Una persona che sa sentirsi adulta tra gli adulti e ha chiare le proprie preferenze sessuali.
Il ruolo dei genitori in questo processo è molto importante. Infatti, le basi per prevedere che dalla bufera adolescenziale se ne esca forti ed integri dipendono dalle relazioni con i care-giver avuti nell’infanzia.
Se i genitori sono stati in grado di rispondere ai bisogni del bambino e lo hanno aiutato nella regolazione emotiva, allora l’adolescente si avventura nella bufera, caratteristica di questa fase evolutiva, con le risorse che gli occorrono per affrontarne le difficoltà. Diversamente, il rischio è che proprio nell’adolescenza avvengano quegli scompensi psichici, quelle rotture, che portano a patologie conclamate.
Riguardo alla definizione del femminile, le bambine già negli anni della scuola materna cominciano a identificarsi con il genitore del proprio sesso. Questa identificazione femminile, un tempo così semplice per le nostre nonne e bisnonne, dove il femminile ed il maschile erano fortemente caratterizzati, attualmente ha perso dei tratti ben definiti.
Mi riferisco al fatto che, fortunatamente, le donne non sono più relegate a lavori, luoghi e posizioni circoscritte, ma hanno conquistato spazi anche nei settori un tempo esclusivamente maschili.
Quindi, come dicevo, la linea netta tra ciò che è maschile e ciò che è femminile non è più così marcata.
Vi è dunque, la necessità di ridefinire e dare nuovi significati all’immaginario maschile ed a quello femminile. Tale necessità la vivono, in primis, le donne, artefici di questa rivoluzione culturale attraverso il difficile compito dell’integrazione delle caratteristiche identitarie legate ai nuovi ruoli assunti nel mondo del lavoro, in famiglia e nella società. Il summenzionato complesso processo d’integrazione ha come conseguenza una riattribuzione dei ruoli maschili e femminili.
Le incongruenze riguardo ai ruoli di queste donne, madri e mogli mi giungono attraverso le figlie che vivono e fotografano con estrema chiarezza tali discrepanze.
Giulia ad esempio, una mia paziente di sedici anni, un giorno viene in terapia molto arrabbiata e racconta delle sue difficoltà con il ragazzo che la vuole limitare nel vestirsi e nelle frequentazioni, mentre lei rivendica il diritto di essere libera come lui.
Giulia: “Se pensa che sta a casa a badare ai figli e fare la calzetta se lo scorda”!
Allora io le faccio notare che forse il suo ragazzo è solo insicuro e le chiedo come mai avere dei figli sia così terribile. Lei risponde che la fine della madre non la vuole fare né ora né mai. Le chiedo allora quale sia la fine che ha fatto sua madre.
Giulia: “Mia madre è tutta scema, non lo sa neanche lei chi è”.
Terapeuta: “Come mai?”
Giulia: “No ti dico, l’altro giorno i miei litigavano per chi si doveva accollare quel poveraccio di mio fratello, che, oltre alla “sfiga” di stare male, doveva pure subirsi loro che litigavano per chi doveva restare a casa con lui.”
Terapeuta: “Beh, immagino che per tuo fratello non sia stato piacevole.”
Giulia: “ No, ma senti tu questa, sembravano due matti! Mia madre che è una dirigente di una società di telefonia diceva a mio padre – ti prego rimani tu a casa domani devo vedere l’Amministratore Delegato della società che viene da Milano – e – mio padre – che di lavoro si occupa della manutenzione di uno stabile – le dice – no, mi dispiace, ma io ho un appuntamento improrogabile con il mio operaio. Secondo te chi è rimasto a casa?”
Terapeuta: “Tua madre?”
Giulia: “Certo che sì” .
Giulia: “ Allora se io da grande devo fa l’uomo, perché mantengo la famiglia, e mia madre la mantiene, guadagna il doppio di mio padre, e poi devo fa la mamma, e poi pure la casalinga, perché mio padre non fa nulla, mi spieghi chi me lo fa fare?!”
Cosa sta mettendo in rilievo Giulia? Forse che la madre ha assunto su di lei i due ruoli della vecchia ripartizione tra maschile e femminile? Agli occhi di Giulia, la madre non mostra di saper qual è davvero il suo ruolo, non ha rielaborato e ridefinito di fronte ad un “maschio” qual è la sua posizione. Certamente queste sono le difficoltà che ogni giorno affrontano moltissime donne, moltissime madri e, talvolta, ne sono schiacciate. Ciò rimanda alle proprie figlie un messaggio confuso, che stimola il desiderio di essere maschi piuttosto che femmine, perché sono comunque protetti ed agevolati.
Vera, una mia paziente di 18 anni, giunge in seduta e dice: “Sai, credo che mia madre non ci stia con la testa.”
Terapeuta: “Come mai pensi che tua madre abbia questo problema?”
Vera: “Perchè questa mattina, ma mica solo oggi, tutti i giorni la stessa storia: sento mia madre che chiede a mio padre se ci sono i soldi per andare a comprare delle cose che servono a lei e a noi figli. La risposta di mio padre, sempre la stessa, “forse no cara è un periodo difficile”. Ma quanto dura ‘sto periodo difficile? Io mi chiedo: ma è possibile che due domande non se le fa? Io voglio sapere perché siamo in difficoltà e invece mia madre, che per tutta la notte ha salvato vite in ospedale, quando torna a casa diventa come “stupida”. Oh ma se quello non sa amministrare fallo tu e facciamola finita:”
Terapeuta:“ Come mai pensi che tuo padre non sappia amministrare?”
Vera: “ Per vari motivi, perché parlando con i miei amici pure loro dicono che viviamo come se fossimo una famiglia di operai con un solo stipendio, mentre mia madre e mio padre sono un medico ed un commercialista e perché ho capito, origliando papà al telefono, che lui fa pasticci al suo lavoro e li paghiamo con lo stipendio di mamma. Mia madre è ancora convinta che come famiglia spendiamo troppo, perché è quello che gli dice mio padre! Ho una rabbia verso di lei!”
Vera non riesce a concepire come sua madre non riesca ad avere una lucidità di pensiero che le permetta di notare le incongruenze proposte dal marito, nonostante lei sia intelligente, capace e, in quanto medico, abituata a capire nel giro di poco tempo cosa fare nel suo lavoro. Dunque, registra nella madre una dissociazione tra la sfera emotiva e quella cognitiva. Una sorta di sudditanza al marito. La vede come una donna capace ma che, quando si confronta col genere maschile, mostra di non esercitare le sue capacità di giudizio e si lascia guidare dal marito oggi, come si è lasciata guidare dal padre (il nonno di Vera) in passato.
Sembra ci sia un’emancipazione a due velocità, quella cognitiva e quella affettiva. Questa fragilità nella sfera affettiva, avvertita nelle madri dalle adolescenti, si manifesta spesso in modo evidente, qualora le madri tentino di cambiare la vita di coppia, non soddisfacente, con un divorzio.
In molti casi, queste donne-madri rompono un legame che non è più significativo, quasi sentendosi in colpa di essere loro a dire basta e riutilizzando, con il successivo partner, le stesse modalità relazionali adottate con il marito.
Gianna di 15 anni, ad esempio, ben descrive questa situazione, osservando la madre che si è separata da un marito tiranno che si faceva servire e riverire e che con orgoglio gli ha lasciato la casa di famiglia, portando con se le figlie in una casa in affitto. Per mantenere tutti, la madre di Gianna lavora tutto il giorno, perché al marito non vuole chiedere “un soldo”, nemmeno per le figlie.
Un giorno, in seduta, Gianna dice: “Oh quanto la odio “quella” che è tutta convinta di chissà che ha fatto, perchè ha avuto il coraggio di separarsi! Hai capito?! Lui c’ha la casa, non dà un soldo, non fa niente ed è convinta che le cose siano cambiate! Ma quanto è scema! L’unica cosa che è cambiata è che per pagare l’affitto siamo pure più povere! Perché poi, se vuoi davvero cambiare le cose, mi costringi ad andarlo a trovare? E’ padre quando gli pare a lui? E poi, te ne importa qualcosa del fatto che mi tratta male? O devo fare come te, che fai il suo zerbino?”” Gianna nota dunque che, con il comportamento attuale, la madre sta perpetrando la stessa modalità di quando erano sposati. Cos’è cambiato? La forma o la sostanza? Questa mamma tratta sempre il marito come una persona che non può fare, non può crescere, né migliorare. Tutto questo suscita nella figlia il rifiuto di un tale modello femminile e l’avversione per quello maschile, con tutto quel che ciò può comportare nella sua vita.
Gianna soffre di anoressia, vuole dimagrire così tanto da non avere più forme, non vuole apparire né maschio né femmina. Un anno fa ha cominciato a “tagliarsi” sulle braccia, affinchè le cicatrici sul suo corpo parlino e siano la memoria della sua sofferenza. Non la vuole dimenticare questa sofferenza perché non vuole diventare come sua madre. Gianna nota, inoltre, che sua madre, oltre a continuare a proteggere l’ex marito dalla responsabilità che comporta essere padre, riproduce anche con il nuovo compagno lo stesso atteggiamento.
A questo proposito afferma: “ Tu la devi vedere con quell’altro! Quando torna a casa, sfatta dalla fatica, e lui le chiede qualcosa, invece di dirgli fattelo da solo che sono “sfranta” (anzi com’è che non t’accorgi che sono sfranta e non mi dai una mano), risponde: si certo, adesso ti aiuto.”.
Questo mettersi in secondo piano, evidente nel comportamento della madre di Gianna, è tipico di un modello femminile passato che, però, era accompagnato dalla cosiddetta “protezione” sociale ed economica da parte dell’uomo. Tuttavia, oggi tale modello risulta anacronistico e disfunzionale, in quanto la donna ha un ruolo diverso nel mondo del lavoro rispetto al passato, mentre continua, spesso, ad occuparsi totalmente anche dell’ambito familiare.
E’ come se ad alcuni cambiamenti negli stereotipi culturali tra maschile e femminile corrisponda una staticità sul piano simbolico. Qual è la forma della emancipazione legata ai contenuti, alla sostanza dei ruoli e delle funzioni esercitate? Sembra mancare una vera rielaborazione di cosa caratterizzi essere donna e cosa, invece, sia una semplice riproduzione del ruolo maschile. Quello che le adolescenti descritte evidenziano, oltre alla difficoltà delle madri nell’elaborazione della propria identità femminile, è anche l’atteggiamento verso il maschile, considerato un “monolite” che non può e non sa cambiare. L’uomo è visto come colui cui bisogna dimostrare di valere, non come una “persona” con cui collaborare per un obiettivo comune, e questo stesso bisogno di dimostrazione diventa esso stesso simbolo di sudditanza. Le ragazze fungono da termometro di questa situazione: vedono, contestano e soprattutto rifiutano. Non hanno un modello femminile cui identificarsi e finiscono per avere un brutto rapporto con il genere maschile. Forse avrebbero bisogno di vedere dei genitori che semplicemente sappiano cooperare senza sopraffazione e che sappiano esaltare le diversità tra mascolino/femminino come risorse di cui beneficiare. Persone capaci di risolvere problemi senza rimanere imbrigliati in stereotipi culturali che non rispondono più alla contemporaneità.
Un altro aspetto che le giovani adolescenti mettono in rilievo è la difficoltà di molte delle loro madri a sganciarsi dall’aspetto esteriore e trasmettere alle proprie figlie il concetto che si è valide anche se non si è “stereotipatamente belle”.
Attualmente, le adolescenti si dividono tra “veline” ed “impegnate culturalmente”. Questa divisione sommaria è fornita dalle stesse adolescenti quando riportano la configurazione femminile nella loro classe. Come al solito sono molto lucide nel fotografare la realtà. Vi sono, infatti, gruppi di adolescenti completamente assuefatte al modello trasmesso dai mass media sul prototipo della bella ragazza, che deve essere magra (quasi anoressica) con capelli lunghi e vestita con brand alla moda. Altre adolescenti, all’opposto, sono incuranti della loro immagine ed anzi sottolineano, con abiti molto insoliti per la moda attuale, che loro sono “diverse”, non allineate. Nell’adolescenza le estremizzazioni sono normali, ma quando la figura femminile di riferimento ti invita ad essere te stessa ed a non preoccuparti se non sei bella, magra ed alla moda, ma poi si comporta come una persona continuamente preoccupata di come appare e posta sui social network immagini artefatte di se stessa, qualcosa comincia a risultare incongruo.
Un giorno, dovendo comunicare un appuntamento alla mamma di una mia paziente e avendola memorizzata male, cerco di capire attraverso la foto di profilo di whatsapp se il numero corrisponda alla persona che devo chiamare. Rimango perplessa vedendo che la persona che appare in quella foto è seducente e soprattutto felice e spensierata. Profilo aggiornato al giorno prima, quando la figlia, la mia paziente, stava per essere ricoverata e lei, la mamma, si era disperata per la paura di perderla. Disorientamento: sembra esserci un profilo per il sociale, dove si deve essere belli, felici e spensierati, ed una dimensione privata, relegata all’ambito familiare, in cui prevalgono la disperazione e l’angoscia. Questa mamma, come molte altre, è rimasta imbrigliata nel vecchio concetto che la donna deve essere piacevole, gentile e bella, concetto o stereotipo simbolico potenziato dalla pressione esercitata dai social network, dalla cultura dell’immagine e dell’apparire, senza poter scegliere ed elaborare un proprio stile di vita ed una propria identità. Identità che dovrebbe essere orientata solo dall’essere coerente con la propria realtà di donna madre e compagna/moglie. Se, invece, a guidarci in ciò che facciamo sono le influenze culturali ed educative, allora siamo molto lontani da noi stesse.
Spesso arrivano in consultazione clinica ragazze sovrappeso, goffe, insicure, accompagnate da mamme bellissime, magrissime, con capelli perfetti, visi perfetti, anche con l’aiuto della chirurgia plastica. Mamme che di primo acchito sembrano essere loro le giovani e le figlie le loro brutte copie. Mamme “barbie” e figlie bullizzate a scuola da compagne “barbie”. Mamme che si chiedono perché la figlia si faccia tanti problemi, sostenendo che “ognuno è bello così com’è”, poi però si infilano in vestiti che le torturano, seguono delle diete strettissime e si sottopongono ad interventi chirurgici non necessari. Anche in tali casi, l’effetto è un disorientamento delle figlie. Giovanna, una mia paziente, un giorno mi dice: “non pensi che dovrei essere io quella che a casa va in crisi perché non sa cosa mettersi o perché ha un brufolo?” Io: “Alla tua età può capitare spesso di non sentirsi a proprio agio con il proprio corpo.” Giovanna: “Sì è vero, ma non ci faccio più caso, solo che trovo proprio assurdo come mia madre mi spinga a non fare caso a come appaio agli altri, mentre lei prima di uscire è lì che controlla anche un capello fuori posto, non mangia e si ammazza in palestra”.
Tali aspetti narcisistici appaiono dominanti in molte aree culturali, legate ai social ed all’esigenza di apparire, ed appartengono sia al maschile che al femminile. Nelle donne sembrano assumere ancora oggi un rilievo maggiore, a causa di secoli di proposizione di un modello femminile che aveva uno dei suoi fondamenti nella bellezza. Modello che, finora, è stato operante prevalentemente sull’identità femminile, anche se le cose stanno cambiando anche a questo livello dell’immaginario sociale.
In questa breve esposizione, prevalentemente clinica, ho evidenziato come modificazioni sociali e culturali possano influenzare i percorsi evolutivi delle persone. Ho parlato di ragazze e famiglie in difficoltà ed ho descritto interazioni nei nuclei familiari, soffermandomi in particolare sulla relazione tra figlie e madri, in cui le persone sono alle prese con lacunosi ed inadeguati processi di rielaborazione dei modelli d’identità femminile. Le manifestazioni psicopatologiche appaiono spesso l’espressione ed estremizzazione di contraddizioni presenti nel tessuto sociale ed in alcuni modelli culturali dominanti.
Il disadattamento è nelle sue specifiche modalità, espressione delle pressioni e degli stressor a cui sono sottoposti gli individui in un determinato periodo storico, caratterizzato da modelli culturali in trasformazione. Possiamo considerare i ritratti delle loro madri, fornito dalle adolescenti, come il segnale delle difficoltà di cui soffre il genere femminile nell’elaborare nuovi modelli di riferimento in questo preciso periodo storico.
Ciò che, tuttavia, va evidenziato è che sono le stesse adolescenti a descrivere le incongruenze delle madri. Le figlie sono dunque in grado di percepire ciò che non va e questo è sicuramente un primo passo per il cambiamento. Adolescenti in cerca di una più soddisfacente elaborazione dell’identità femminile, sempre sospesa tra l’essere e l’apparire.
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Prof. Simonetta Spiridigliozzi
Docente di Cognitività dell’Età Evolutiva
Università di Tor Vergata
simonetta.spiridigliozzi@uniroma2.it